LA CRISI DELL'ECONOMIA DI CRESCITA

Società ecologica e democrazia inclusiva
 

 
TAKIS FOTOPOULOS

 

L'oggetto del mio intervento di oggi è duplice. In primis, esaminare le cause dell'attuale crisi multidimensionale, di cui una dimensione importante è la crisi ecologica. La tesi che cercherò di avanzare è che la causa ultima dell'attuale crisi a livello ecologico, ma anche economico, politico e, più ampia­mente, sociale non è, come si è soliti affermare, la rivoluzione industriale, la tecnologia, la sovrappopolazione, il produttivismo, il consumismo, ecc. Per me, in realtà, tutte queste presunte cause sono i sintomi di un disagio molto più grave chiamato "concentrazione del potere". Quindi, nella prima parte della relazione cercherò di mostrare che è l'odierna con­centrazione del potere economico e politico, il primo come ri­sultato della nascita dell'economia di mercato e la conseguente economia di crescita, e il secondo come risultato della nascita parallela dell'attuale oligarchia liberale, ad essere la causa ultima della crisi attuale. 

Il mio secondo obiettivo è di cercare di dimostrare che se accettiamo la spiegazione della crisi in termini di concentra­zione del potere, allora il progetto di una democrazia inclusi­va, che comporta l'equa distribuzione del potere economico, politico e sociale, non è solo un'utopia, ma l'unica via d'uscita alla crisi odierna che, come si può intuire, minaccia non solo le forme attuali di vita sociale, ma la vita stessa. Ciò significa che tutti i tentativi in corso di affrontare la crisi ecologica, che non comportino uno sforzo serio di attaccare l'attuale enor­me concentrazione del potere economico e politico, sono de­stinati al fallimento. I summit sulla Terra, le conferenze in­ternazionali su popolazione e sviluppo andranno e verranno, come hanno fatto negli anni scorsi, ma la situazione continuerà a peggiorare, fino a quando rimarrà intatto l'attuale sistema socio-economico che istituzionalizza la concentrazio-ne del potere. 

In breve, ritengo che l'attuale concentrazione del potere economico sia l'inevitabile conseguenza di un processo co­minciato circa duecento anni fa con la nascita del sistema dell'economia di mercato, un sistema che è sfociato nell'at­tuale economia neoliberista che condanna un terzo della po­polazione mondiale alla disoccupazione e un quinto di essa alla povertà assoluta e a una vita media di quarant'anni. E' stata la nascita di questo sistema a portare, attraverso pro­cessi diversi e per ragioni diverse, ai due tipi di economia di crescita, vale a dire quella che oggi definiamo come la sua defunta versione "socialista" (ciò che si era soliti chiamare "socialismo reale") e l'attuale universale economia di crescita capitalistica. Come sappiamo, entrambe le versioni dell'eco­nomia di crescita, che può essere definita come il sistema di organizzazione economica indirizzato, "obiettivamente" o de­liberatamente, verso una crescita economica massimizzata, sono state responsabili del più grave danno all'ambiente di tutta la storia e secondo la mia tesi è la concentrazione del potere (intrinseca in ogni tipo di economia di crescita) ad es­sere la causa ultima della crisi ecologica, come parte di una crisi multidimensionale. 

Ma prima di spiegare il modo in cui abbiamo raggiunto questo punto, vorrei chiarire i termini da me usati, comin­ciando col concetto fondamentale di economia di mercato. Perché parlo di nascita dell'economia di mercato e non di ca­pitalismo? Ovviamente, la ragione per cui preferisco il termi­ne economia di mercato non è per attenermi all'odierna "cor­rettezza politica" che ha esorcizzato le parole "capitalismo" e, più comodamente, "socialismo". E' una scelta influenzata dal fatto che, nonostante i concetti di "modo capitalistico di pro­duzione" e di "economia capitalistica mondiale" abbiano for­nito contributi importanti rispettivamente all'analisi delle clas­si sociali e alla distribuzione mondiale del lavoro, essi sono troppo limitati e antiquati. 

Sono troppo limitati, perché implicano che le relazioni di potere in generale possano essere analizzate in termini di (o essere ridotte a) rapporti di potere economico, là dove è ovvio che il potere economico è solo una forma di potere e che, se usato in particolare come concetto centrale nell'analisi dei fenomeni sociali collegati ai rapporti gerarchici (nella fami­glia, nel lavoro, ecc.), o ad argomenti di "identità" razziale e culturale, esso porterà a interpretazioni inadeguate o troppo semplificate. 

Sono antiquati, perché nell'odierna economia intema­zionalizzata di mercato, né l'analisi di classe marxista, né il concetto della divisione mondiale del lavoro implicita nell'ap­proccio del "sistema mondiale" sono particolarmente rilevan­ti. Abbiamo bisogno di una diversa analisi delle classi per capirne le strutture presenti, come pure di diverse concezioni di Nord e Sud per comprendere le attuali strutture economi-che internazionali. Certo, questo non vuoi dire che il concetto di economia di mercato sia, di per sé, sufficientemente ampio per interpretare in modo adeguato i fenomeni sociali come quelli appena menzionati. Tuttavia, il fatto stesso che questo concetto sia usato per spiegare solo una parte della realtà, l'ambito economico, senza pretendere che esso determini (nem­meno "in ultima istanza") gli altri ambiti, permette sufficiente flessibilità nello sviluppo di adeguate interpretazioni interdisciplinari della realtà sociale. 

Uso quindi il termine "economia di mercato" per definire il sistema concreto che emerse in un luogo specifico (Europa) e in un momento particolare (due secoli fa), e non come una categoria storica generale di un approccio volto a di mostrare l'evoluzione del sistema economico nella storia, come si sup­pone che faccia il concetto marxista di modi di produzione. Definirò economia di mercato il sistema autoregolante in cui i problemi economici fondamentali (cosa, come e per chi pro­durre) sono risolti "automaticamente" attraverso il meccani­smo del prezzo, piuttosto che attraverso precise decisioni so­ciali. Certo, questo non significa che in un'economia di mer­cato non ci siano controlli sociali. A questo punto, dovremo introdurre una distinzione importante fra i vari tipi di con­trolli sociali che ci aiuteranno ad interpretare l'odierna "marketizzazione" e internazionalizzazione dell'economia.

Ci sono tre tipi di possibili controlli sociali sull'economia di mercato: 

1) controlli regolatori, normalmente introdotti dai capitali­sti che controllano l'economia di mercato per "regolare" il mercato stesso. Lo scopo di tali controlli è di creare un conte­sto stabile per il tranquillo funzionamento dell'economia di mercato senza colpire la sua natura essenzialmente autoregolante. Essi sono sempre stati necessari per il funzio­namento del sistema dell'economia di mercato. Alcuni esem­pi al riguardo possono essere i diversi controlli introdotti ora dall'ultima tavola rotonda del GATT, o dai trattati di Maastricht/Amsterdam, che hanno lo scopo di regolare ri­spettivamente i mercati mondiali e quelli europei, soprattutto nell'interesse di chi controlla i rispettivi mercati (multinazio­nali, ecc.); 

2) controlli sociali in senso lato che, nonostante abbiano come scopo primario la protezione di quelli che controllano l'economia di mercato di fronte alla concorrenza straniera, possono solo avere alcuni effetti indiretti giovevoli forse an­che al resto della società. Un esempio fondamentale di tali controlli è costituito dalle svariate misure protezionistiche che hanno il fine di proteggere prodotti nazionali e mercati di ca­pitale (tariffe, controlli dell'import, controlli dei cambi, ecc.); 

3) controlli sociali in senso stretto che hanno lo scopo di proteggere l'umanità e la natura contro gli effetti della "marketizzazione". Tali controlli sono di solito introdotti a se­guito di lotte sociali intraprese da coloro i quali risentono ne­gativamente degli effetti dell'economia di mercato direttamente o nell'ambiente. Tipici esempi in questo senso sono la legisla­zione per la previdenza sociale, i fondi per l'assistenza, i con­trolli macro-economici per assicurare la piena occupazione, i controlli ambientali, ecc.

L'economia di mercato, come l'ho definita, è un termine più ampio di capitalismo, e i due non dovrebbero essere con­fusi. Essa si riferisce, infatti, al modo in cui sono assegnate le risorse, là dove il capitalismo si riferisce ai rapporti di pro­prietà. Anche se, storicamente, l'economia di mercato è asso­ciata al capitalismo, cioè alla proprietà privata e al controllo dei mezzi di produzione, un'assegnazione di mercato delle ri­sorse non è inconcepibile senza un sistema di proprietà so­ciale e controllo delle risorse economiche. Questa distinzione fra capitalismo ed economia di mercato è particolarmente utile oggi nel momento in cui molti nella sedicente "sinistra", dopo il fallimento dell'economia pianificata, riscoprono i meriti di un'economia di mercato "socialista". Allo stesso tempo, pa­recchi partiti "comunisti" del Sud (Cina, Vietnam, ecc.) si sono imbarcati in una strategia atta a costruire un'economia di mercato "socialista", e si trovano ora in fase di raggiungimento di una sintesi dei peggiori elementi dell'economia di mercato (disoccupazione, disuguaglianza, povertà) e dello statalismo "socialista" (autoritarismo, mancanza di ogni libertà politica, ecc.). 

Sebbene il mercato oggi permei tutti gli aspetti della vita, da quella familiare alla cultura, all'educazione, alla religione, eccetera, si può facilmente dimostrare che, nonostante il fat­to che i mercati esistano da molto tempo, la marketizzazione dell'economia è un fenomeno nuovo, emerso negli ultimi due secoli. I mercati, fino alla fine del Medio Evo, non avevano alcun ruolo significativo nel sistema economico. Perfino quan­do, dal XVI secolo in avanti, i mercati divennero numerosi e importanti, erano strettamente controllati dalla società, sotto condizioni che hanno reso inconcepibile un mercato autoregolante. 

L'elemento cruciale che differenzia l'economia di mercato da tutte le economie passate (dove i mercati erano autoregolanti, dal momento che tutti i mercati tendono a sta­bilire prezzi che livellano domanda e offerta) fu il fatto che, per la prima volta nella storia dell'uomo, nasceva un sistema di mercato autoregolante, un sistema in cui i mercati si svi­lupparono persine per i mezzi di produzione, cioè lavoro, ter­ra e denaro. Di fatto, alla fine del XVIII secolo emerse la tran­sizione dai mercati regolati ad un sistema composto da mercati autoregolati, che segnano la "grande trasformazione" della società, cioè l'andare verso un'economia di mercato che ave­va insiti gli elementi per divenire l'attuale economia intemazionalizzata. 

Così, l'introduzione di nuovi sistemi di produzione du­rante la Rivoluzione industriale nel contesto di una società commerciale, dove i mezzi di produzione erano di proprietà e controllo privati, portò inevitabilmente (con il supporto criti­co dello stato nazione) alla trasformazione delle economie so­cialmente controllate del passato, in cui il mercato giocava un ruolo marginale nel processo economico, nelle attuali economie di mercato. Tutto ciò fu inevitabile perché il controllo privato della produzione richiedeva che coloro i quali control­lavano i mezzi di produzione dovessero essere economicamente efficaci per sopravvivere alla concorrenza. E questo voleva dire che dovevano assicurare due cose: 

a) il libero flusso di lavoro e territorio al costo mini­mo, e

b) il flusso continuo di investimenti in nuove tecni­che, metodi di produzione e prodotti, nello sforzo di migliorare l'efficienza e le cifre di vendita. 

Il primo requisito, cioè assicurare il libero flusso dei mez­zi di produzione al costo minimo, comporta la marketizzazione, e il secondo la crescita. La "marketizzazione" significa che quelli che hanno il controllo privato dei mezzi di produzione hanno interesse a minimizzare i controlli sociali sui mercati, e parti­colarmente di mercati di lavoro, capitale e territorio. E' così perché se, per esempio, si introduce una legislazione per pro­teggere il lavoro, questa renderà il lavoro meno flessibile e, di conseguenza, il flusso del lavoro meno facile o più caro. Il secondo requisito, cioè investire in nuove tecniche, metodi di produzione ecc., al fine di sopravvivere alla concorrenza, por­ta inevitabilmente all'espansione. E' un processo spiegato in modo esauriente dall'espressione "cresci o muori". Quindi i due requisiti citati, entrambi insiti nei bisogni stessi di effi­cienza e competitivita, sottolineano, da un lato, la logica "og-gettiva" del sistema dell'economia di mercato espressa dalla marketizzazione e, dall'altro, la dinamica del sistema, la cre­scita economica. 

Perciò, in un'economia di mercato abbiamo due insiemi di bisogni che, in effetti, sono in conflitto diretto. Da un lato, abbiamo i bisogni "privati" di efficienza e competitività da parte di coloro che controllano i mezzi di produzione, il che porta inevitabilmente alla "marketizzazione" e alla crescita; dall'al­tro ci sono i bisogni sociali di protezione del lavoro, o dell'am­biente che, altrettanto inevitabilmente, portano all'espansio­ne dei controlli sociali sul mercato, cioè la "socializzazione" dei mercati. Naturalmente, tale conflitto nasce solo in un si­stema di organizzazione sociale in cui la società è separata dall'economia, come avviene nell'economia di mercato. Ecco perché, nel momento in cui si costituì l'economia di mercato, cominciò una lotta sociale senza fine. Schematicamente, que­sta è la lotta fra coloro che controllano l'economia di mercato, cioè l'elite capitalista che sorveglia la produzione e la distri­buzione, e il resto della società. I primi aspiravano a minimiz­zare i controlli sociali sul mercato, e particolarmente su quel­lo del lavoro, in modo da poter assicurare il libero flusso di merci. D'altro canto, quelli dall'altra parte, e in particolare la crescente classe operaia, aspiravano a massimizzare i con­trolli sociali sul mercato, cioè, il loro obiettivo era di massimizzare l'autoprotezione della società di fronte ai peri­coli dell'economia di mercato, specialmente la disoccupazio­ne e la povertà. 

A livello teorico e politico, questo conflitto si espresse con lo scontro fra liberalismo economico e socialismo (in senso lato). Il  liberalismo economico cercava di stabilire un sistema di mercato autoregolante, usando come metodi principali il laissez-faire, il libero scambio e i controlli regolatori. Da parte sua, il socialismo cercava di rispettare gli esseri umani, come pure l'organizzazione produttiva, usando come metodi prin­cipali i controlli sociali sui mercati. Questa lotta ha costituito l'elemento centrale della storia occidentale, dalla rivoluzione industriale fino ad oggi. 

Dobbiamo comunque notare qui che, mentre le compo­nenti fondamentali dell'economia di mercato erano due, la "marketizzazione" e la crescita, era solo una di esse, la prima, che storicamente ha diviso l'intellighenzia dell'era industriale e portò ai due grandi movimenti teorici e politici, il liberalismo e il socialismo. Nessuna divisione simile era sorta nella se­conda componente, cioè la crescita economica, fino a che non si entrò nell'era post-industriale. Nella versione capitalista e in quella "socialista" dell'economia di crescita, la crescita eco­nomica divenne elemento centrale di quello che chiamerò il paradigma sociale dominante (cioè, il sistema delle credenze, delle idee e dei corrispondenti valori associato alle istituzioni politiche, economiche e sociali). Così, la crescita economica divenne un obiettivo liberista oltre che socialista, anche se è intrinsecamente legata all'economia di mercato. Questo, ov­viamente, fu dovuto all'identificazione post-illuministica del progresso con lo sviluppo di forze produttive che fu adottato dai socialisti, e in particolare dai marxisti. 

Ritornando al processo di "marketizzazione", possiamo distinguere storicamente tre fasi principali che lo compongono:

a) la fase liberista, nel quarantennio circa che va dal 1830 al 1870, che dopo un periodo transitorio di protezionismo portò a

b) la fase statalista, nel quarantennio circa che va dal 1930 al 1970, seguita da

c) l'attuale fase neoliberista.

Come si vede dalla suddetta periodizzazione, la tendenza a lungo termine dalla nascita dell'economia di mercato è sem­pre stata quella di minimizzare i controlli sociali sui mercati e, cosa importante dal nostro punto di vista, di una concen-trazione parallela di potere economico. Si può facilmente di­mostrare che, sia teoricamente sia empiricamente, c'è una relazione diretta fra "marketizzazione" e concentrazione del potere economico: più alto è il grado di "marketizzazione" (cioè più bassi sono i controlli sociali, e in particolare quelli in sen­so stretto), più alto è il grado di concentrazione del potere. Storicamente, è stato solo durante la relativamente breve fase statalista che questa tendenza a lungo termine verso la "marketizzazione" si rovesciò, nonostante persine allora si ri­corresse all'introduzione dei controlli sociali per proteggere il lavoro, piuttosto che l'ambiente. Questo è stato soprattutto il risultato dell'intensificazione della lotta sociale contro le élites economiche, una lotta che venne favorita da una serie di fat­tori contingenti a livello politico ed economico che qui non abbiamo il tempo di considerare. 

Oggi, l'economia neoliberista e intemazionalizzata di mer­cato è universale. In tal senso, è importante notare che la rivoluzione che ha portato alla presente società post-indu-striale non solo ha creato una massiccia disoccupazione evi­dente o camuffata, che ora lo stato non può o non vuole con­trollare, ma ha anche portato a cambiamenti strutturali nella popolazione attiva e nell'elettorato. Così, nei paesi capitalisti avanzati è emersa una nuova struttura di classe. Da una parte c'è la classe inferiore, composta soprattutto da disoccupati e membri della popolazione inattiva che vivono sotto la linea della povertà. Dall'altro c'è l'elite economica e la classe supe­riore, cioè la classe medio-alta creata dal processo di "marketizzazione". In modo abbastanza interessante, la classe inferiore, alla quale si è stimato che appartenga il 30% della popolazione attiva adulta, e la classe superiore, che co­stituisce circa l'1% della popolazione, si dividono fra di loro circa il 28% del reddito nazionale, cioè 14% ciascuno!

Fra questi due poli ci sono i gruppi di mezzo, che costitu­iscono la larga maggioranza della popolazione, circa il 70% di essa. Comunque, è solo la parte superiore di questi gruppi di mezzo, circa il 40% della popolazione, che dal punto di vista finanziarlo costituisce, secondo un recente studio britannico, la minoranza privilegiata e, da quello elettorale, secondo Galbraith, la maggioranza elettorale contesa. A controllare la maggior parte delle entrate è solo questa fascia della popola­zione, impiegata a tempo pieno, ben pagata e con lavori sicu­ri. Nei paesi capitalisti avanzati, il 40% della popolazione in cima alla scala gerarchica controlla in media circa i due terzi delle entrate e tramite il suo potere politico ed economico de­termina il risultato elettorale. D'altro canto, la parte inferiore dei gruppi di mezzo, che consiste del 30% circa della popola­zione, include tutti coloro i quali sono impiegati in lavori sottopagati, insicuri e scarsamente protetti, cioè gli emarginati e gli insicuri. A questa categoria appartiene la maggioranza del crescente esercito dei lavoratori part-time e occasionali, impiegati in posti poco retribuiti senza nessuna formale pro­tezione di impiego, come pure la tradizionale classe degli ope­rai poco specializzati. 

Pertanto, la società post-industriale neoliberista non è nemmeno una "società a due terzi", come si era soliti descri­verla, ma una "società 40%". Ora, dal punto di vista sociale, i gruppi che formano questa minoranza privilegiata sono ostili a ogni espansione dello statalismo e dello stato assistenziale e, in generale, a ogni efficace controllo sociale sui mercati che possa colpire il loro reddito e le loro proprietà. Essi sono sem­pre più attirati dall'ideologia dell'approvvigionamento privato di servizi come sanità, educazione e pensioni, nonostante una parte significativa di questa "attrazione" sia forzata dall'at­tacco neoliberale all'approvvigionamento dello stato di tali servizi. Il loro atteggiamento nei confronti dello statalismo e dello stato assistenziale è determinato dal fatto che i servizi pubblici e il loro finanziamento tramite le tasse hanno un effetto disparato sulla minoranza privilegiata e sulla classe inferiore. In altre parole, è la minoranza privilegiata che deve finanziare, soprattutto attraverso le tasse, i servizi pubblici che non le interessano più (il deteriorarsi della loro qualità come risultato di politiche neoliberiste è qui un fattore im­portante) e che avvantaggiano principalmente la classe infe­riore. Dal momento che la minoranza privilegiata è anche la maggioranza elettorale (perché assume una parte attiva nel processo elettorale, là dove la classe inferiore generalmente non si cura di votare, frustrata dall'incapacità dei partiti poli­tici di risolvere i suoi problemi), nei paesi capitalisti avanzati il risultato elettorale è determinato dai comportamenti della minoranza privilegiata/maggioranza elettorale. 

Il risultato inevitabile di questi cambiamenti nella strut­tura di classe e nella composizione dell'elettorato è stato il rapido declino dei tradizionali partiti social-democratici e il loro conseguente tentativo di catturare una parte significati­va di voto della minoranza "privilegiata" tramite la "modernizzazione" di se stessi, secondo le linee guida del pro­gramma neoliberale. Ecco come è stato creato quello che chia­mo il "consenso neoliberista", che ha sostituito il defunto con­senso socialdemocratico del periodo dello statalismo. Il nuo­vo consenso non implica che lo stato non abbia più nessun ruolo economico da giocare. Non si dovrebbe confondere il liberalismo/neoliberalismo con il laissez-faire, né dimentica­re che fu lo stato stesso a creare il sistema dei mercati in grado di autoregolarsi. Inoltre, per il tranquillo funzionamen­to del sistema del mercato economico sono sempre state ne-cessarie alcune forme di intervento statale. Lo stato oggi è chiamato a giocare un ruolo cruciale per quanto riguarda l'of­ferta economica e, in particolare, a prendere misure per mi­gliorare la concorrenza, e adeguare la forza lavoro ai requisiti della nuova tecnologia, anche per sovvenzionare le industrie che esportano. Quindi il tipo di intervento statale compatibile col processo di "marketizzazione" non solo non viene scorag­giato, ma, al contrario, è attivamente promosso dal consenso neoliberista, specialmente dagli elementi che al suo interno sono considerati "progressisti" (l'amministrazione di Clinton, i partiti social-democratici o di centro sinistra in Gran Bretagna, Francia, Italia, Grecia, ecc.). 

Di conseguenza, l'obiettivo principale delle élite che con­trollano l'economia di mercato odierna è, come è sempre sta­to, quello di massimizzare il ruolo del mercato e di minimizzare i controlli sociali su di esso, in modo da assicurare il mas­simo dell'efficienza e della crescita. Perciò, i controlli sociali in senso stretto sono universalmente da escludere. Lo stesso si può dire di alcuni importanti controlli sociali (in senso lato) come quelli sulle importazioni, sulle tariffe, ecc., che sono pure escluse poiché ostacolano l'espansione dell'attuale eco­nomia intemazionalizzata di mercato. Eppure questo non si­gnifica l'eliminazione di tutti i controlli sui mercati. I controlli "regolatori" sono ancora considerati opportuni e in alcuni casi vengono allargati. Inoltre si tende a non eliminare nemmeno alcuni controlli sociali. Pure, per quanto riguarda i controlli sociali in senso stretto, nonostante lo stato assistenziale ven­ga lasciato decadere, nei paesi capitalisti avanzati si manten­gono svariate "reti di salvataggio" per controllare la massiccia agitazione sociale. Pertanto, non dobbiamo solo affrontare un tentativo di far ritornare l'orologio del tempo indietro fino al 1840. Oggi, infatti, si sta sperimentando una nuova sintesi, allo scopo di evitare gli estremi del puro liberalismo, combi­nando essenzialmente mercati che si autoregolano con vari tipi di reti di salvataggio e controlli che assicurano la posizio­ne privilegiata prima di tutto della "classe superiore" e, se­condariamente, della "società al 40%", come pure la pura e semplice sopravvivenza della "classe inferiore", senza colpire il processo di autoregolazione nelle sue parti essenziali. Lo stato nazione, pertanto, ha ancora un ruolo significativo non solo nell'assicurare, attraverso il suo monopolio della violen­za, il contesto dell'economia di mercato, ma anche nel mante­nere l'infrastruttura per il tranquillo funzionamento dell'eco­nomia neoliberista. 

Nondimeno, come ho detto prima, l'attuale fase neoliberista non è solo associata con una minimizzazione dei controlli sociali sul mercato, ma anche con un'inevitabile ampia concentrazione di potere economico. Quest'ultima è evidente a tutti i livelli: come concentrazione di produzione e commercio, come concentrazione di capitali, come concen­trazione del reddito nel Nord e nel Sud e fra di essi, concen­trazione di benessere e così via. Quindi, per fornire alcuni dati riguardo all'attuale concentrazione del potere economi­co, le 500 più grandi imprese, sebbene impieghino solo il 5% della popolazione mondiale, controllano il 25% della produ­zione globale e il 42% delle ricchezze del pianeta. Per essere più precisi, circa il 40% della produzione mondiale in 12 im­portanti settori industriali, che includono l'industria dei mo­tori, l'elettronica, i computer, l'acciaio, il petrolio, i mass me­dia, è nelle mani di 5 compagnie, mentre la catena alimentare viene controllata in ogni suo aspetto solo da 10 compagnie. Infine, laddove negli scorsi vent'anni la quota del commercio mondiale per le 48 nazioni meno sviluppate (che rappresen­tano il 10% della popolazione mondiale) si era dimezzata, e oggi questi paesi ne controllano solo lo 0,3%, 359 multinazio­nali gestiscono il 40% del commercio globale. 

Non ci deve sorprendere che il 20% più benestante della popolazione è ora 78 volte più ricco del 20% più povero, laddove nel 1960 lo era solo 30 volte di più. Nell'Unione Europea in particolare, un recente rapporto dell'Eurostat ha mostrato che nel 1993 oltre un quarto del reddito dei 12 paesi membri era in mano al 10% delle famiglie più in alto nella società, mentre il reddito del 10% più basso ammontava al 2% del totale. Ma dal momento che la distribuzione delle entrate è un fattore capitale nello schema di consumo e, in un'economia di mer­cato, anche dello schema di produzione, si può facilmente vedere il legame fra la disuguaglianza e l'attuale sviluppo eco­nomico eco-distruttore. 

Quindi, per quanto riguarda dapprima il 10% più alto, è risaputo che sono gli stili di vita consumistici dei ricchi a cau­sare la maggior parte della degradazione ambientale. Ad esem­pio, secondo gli ultimi dati, il "Gruppo dei 7" paesi capitalisti più ricchi del globo, dove vive il 12% della popolazione mon­diale, è la causa di circa il 42% dell'emissione dei gas che provocano l'effetto serra. 

All'altro estremo, è difficile negare, sulla base di tutte le prove esistenti, che sia soprattutto la povertà come sviluppo (cioè la povertà causata dallo sviluppo) a portare alla degra­dazione ambientale, e non la povertà come sottosviluppo (cioè la povertà causata dalla mancanza di sviluppo). In altre paro­le, è la concentrazione del potere economico derivante dal­l'importazione del sistema dell'economia di mercato e della conseguente economia di crescita da parte delle élite del Sud ad aver portato alla distruzione delle comunità locali e della loro self-reliance, in favore delle economie di esportazione che si stanno costituendo oggi in tutto il mondo, all'interno del contesto dell'economia intemazionalizzata di mercato. Quindi, se nel 1961 in America Latina circa l' 11% della popolazio­ne non aveva alcun possedimento terriero, nel 1975 questa cifra è salita al 40%. In generale, l'80% circa di tutto il territo­rio agricolo del Terzo Mondo continua oggi ad essere posse­duto da circa il 3% dei proprietari terrieri. Il risultato di que­sta versione nuova e aggiornata del movimento di chiusura è che i contadini senza terra prendono parte alla distruzione del loro ambiente locale, sotto forma di deforestazione e di­struzione generale degli ecosistemi, per salvaguardare la loro stessa sopravvivenza. 

Ciò che si deve sottolineare, pertanto, è che sia nel caso degli schemi di consumo dei ricchi che in quello degli schemi di produzione dei poveri la causa prima della distruzione am­bientale non è solo la crescita economica. L'ammontare e, cosa più importante, il tipo di crescita che stanno prendendo pie­de sono condizionati in modo cruciale dalla concentrazione del potere economico, che, da parte sua, è, come ho già detto, la conseguenza inevitabile della separazione dell'economia dalla società. Quindi, il fenomeno della concentrazione sem­pre crescente del potere economico ha caratterizzato l'intero periodo storico che comincia dalla nascita dell'economia di mercato. 

Questo di sicuro non ci sorprende, dal momento che sia la teoria economica ortodossa sia quella marxista possono essere usate per dimostrare che la massimizzazione della cre­scita e dell'efficienza economica dipendono essenzialmente dal­l'ulteriore divisione del lavoro, e dalla specializzazione ed espansione delle dimensioni del mercato. La conseguenza ine­vitabile della ricerca del profitto attraverso la massimizzazione dell'efficienza e delle dimensioni è stata la concentrazione de! potere economico nelle mani delle élite che ne controllano l'evo­luzione del processo. Ciò si può facilmente dimostrare cor una ricerca empirica. 

Uno studio recente, ad esempio, ha confermato che "c’e una relazione solida e positiva fra le possibilità di guadagno dell'industria e la concentrazione del mercato". Questa è una chiara indicazione che la ricerca del profitto da parte di quelli che controllano l'economia di mercato porta proprio alla concentrazione. 

Si deve notare, qui, che il recente cambiamento della scala di produzione non colpisce la concentrazione, che continua e accelera sempre più. In una prima fase della "marketizzazione", quindi, la concentrazione del potere eco­nomico è stato il risultato della massificazione della produ­zione, cioè la concentrazione del processo produttivo in gran­di unità di produzione che hanno assicurato l'economia di scala e l'efficienza economica. Oggi, le compagnie capitalisti-che, per sopravvivere alla concorrenza nell'economia internazionaliz-zata di mercato, devono "produrre piccole quantità di alta qualità, merci semilavorate fatte su misura per i mercati di nicchia, eliminando quindi le economie di scala come la dinamica centrale della competizione". 

A tutt'oggi, pertanto, la concentrazione del potere econo­mico coincide con un processo parallelo di "de-massificazione" della produzione e di diversificazione compatibile alle neces­sità della società postindustriale e della moderna tecnologia. Comunque, questa "de-massificazione" della produzione, seb­bene possa influenzare le dimensioni dell'unità produttiva, non colpisce certamente il grado di concentrazione del potere economico al livello della compagnia. Per esempio, la grande concentrazione del potere di investimento in un piccolo nu­mero di ditte capitaliste è indicativo: le 100 più potenti corpo­razioni multinazionali gestiscono un terzo del totale dei titoli stranieri a investimento diretto. 

Inoltre, la sempre maggiore concentrazione del potere eco­nomico che ha accompagnato la nascita del mercato è evi­dente anche a livello inter-nazionale. Come è risaputo, da quando l'economia di mercato del Nord ha cominciato a pe­netrare le economie tradizionali del Sud si è creato tra di essi un divario storico. Circa duecento anni fa, quando al Nord il processo di marketizzazione era appena cominciato, nei pae­si ricchi il reddito medio pro capite era solo una volta e mezza più alto di quello dei paesi poveri. Cento anni dopo, nel 1900, divenne sei volte più alto, e per l'epoca dell'importazione nel Sud dell'economia di crescita nei primi anni '50, aveva rag­giunto uno scarto pari a otto volte e mezzo. Quest'abisso è drammaticamente aumentato da allora, e nel 1970 il reddito pro capite del Nord era 13 volte più alto di quello del Sud. Negli anni '80 e nei primi anni '90, il processo di concentra­zione venne ulteriormente accelerato. Pertanto, i "paesi del Triad", cioè i paesi delle tre principali regioni economiche (Nord America, Unione Europea e Giappone) che riuniscono solo il14% della popolazione, durante il periodo 1980-91 attirarono il 75% degli investimenti esteri diretti, gestirono il 70% del commercio globale e ricevettero circa il 70% delle entrate mondiali. Come risultato, il reddito pro capite delle "econo­mie ad alto reddito" (secondo la definizione della Banca mon­diale) dove vive il 16% della popolazione mondiale, nel 1995 divenne quasi 58 volte più alto di quello delle "nazioni a basso reddito", dove vive il 56% della popolazione mondiale. Solo negli ultimi otto anni, con il divenire universale dell'economia internazionalizzata di mercato, la diseguaglianza mondiale è esplosa. Nel 1987, il reddito pro capite dei paesi più poveri era il 7,3% del reddito degli Stati Uniti (in termini di PPP), mentre nel 1995 è precipitato al 4,7%!

La prerogativa dell'economia di crescita, comunque, non è stata la concentrazione del potere economico. Nell'econo­mia di crescita socialista si è assistito ad una concentrazione simile, per cui la differenza fra i due tipi di economia di cre­scita rispetto ad essa è ridotta a chi possiede i mezzi di pro­duzione e a come questi sono allocati rispetto ai differenti usi. Quindi, sia il meccanismo di mercato dell'economia di crescita capitalista, sia quello di pianificazione dell'economia di crescita socialista si risolvono nel mettere pochi in posizio­ni privilegiate, a discapito della maggioranza. Nel meccani­smo del mercato, ciò viene automaticamente determinato at­traverso l'ineguale distribuzione del reddito che risulta dal funzionamento del meccanismo, mentre nella pianificazione centrale ciò si realizza, attraverso l'istituzionalizzazione dell'élite burocratica in una posizione privilegiata all'interno del pro­cesso di pianificazione. 

Quindi, non sono state accidentali né la concentrazione "socialista" del potere, quando il socialismo prese la forma di "democrazia" sovietica a livello politico e di pianificazione cen­trale a livello economico, né certo la concentrazione capitali­sta del potere, quando il capitalismo prese rispettivamente la forma di "democrazia" parlamentare e di economia di merca­to. In entrambi i casi, la concentrazione è giustificata dalla rispettiva ideologia, marxismo e liberalismo. 

Pertanto, nel marxismo, la concentrazione del potere vie­ne considerata necessaria nel periodo di "transizione" verso il comunismo, mentre nel liberalismo, finché essa è "legale", non si considera incompatibile col principio liberista fondamentale del "primato dell'individuo", anche se, certo, la con-centrazione ne nega l'universalità. E' quindi chiaro che en­trambi i sistemi, in pratica, non sono stati capaci di mante­nere le loro promesse: il "socialismo reale" non portò alla libe­razione degli esseri umani, e il "capitalismo reale" non ha af­fermato in realtà la "supremazia dell'individuo". 

La concentrazione del potere economico non costituisce-sicuramente un fenomeno nuovo. In tutte le società gerarchiche, la concentrazione del potere militare e politico nelle mani delle varie élite viene sempre accompagnata da una certa con­centrazione di ricchezza, un fatto di solito "giustificato" attra­verso un sistema di regole sociali basate sulla religione. L'ele­mento nuovo nell'economia di crescita è il fatto che la ripro­duzione del sistema sociale stesso, come pure del potere dell'elite che lo controlla, dipende in modo cruciale dalla realizzazione dell'obiettivo della crescita che, a sua volta, viene "giustificato" attraverso la sua identificazione con il progresso. 

Quindi, la crescita economica funziona non solo come obiettivo sociale ed economico fondamentale, ma anche come mezzo di base per riprodurre le strutture di iniqua distribu­zione del potere economico e politico che caratterizza la mo­derna società gerarchica, e pure come elemento centrale del­l'ideologia che la sostiene. La società gerarchica, quindi, ha assunto un nuovo aspetto con la nascita dell'economia di mercato in Occidente e con quella dell'economia pianificata in Oriente. 

In questa nuova forma, l'elite trae il suo potere non solo (come in passato) dalla concentrazione del potere politico, militare o, in generale, sociale, ma, soprattutto dalla concen­tra/ione del potere economico, sia che essa sia causata dai meccanismi di mercato, oppure dalla pianificazione centrale. Comunque, il fatto che per la sua riproduzione la moderna società gerarchica conti sulla massimizzazione della crescita economica costituisce anche la sua contraddizione fondamen­tale. 

Questo non avviene perché, come si è soliti pensare, la concentrazione dell'economia di crescita ha gravi implicazio­ni ambientali, ma perché la condizione necessaria per la sua riproduzione è la concentrazione dei suoi benefici in una pic­cola sezione della popolazione globale, in altre parole l'ampia diseguaglianza nella distribuzione del reddito mondiale.

Essa si basa su due principi:

  • primo, gli standard di consumo sconsiderato di cui oggi godono le "società 40%" del Nord e le élite del Sud non è fisicamente possibile che siano universalizzati e goduti dalla po­polazione mondiale. Quindi, com'è stato recentemente puntualizzato, "sembra chiaro che il consumo materiale del popolo industriale non possa essere universalizzato e com­prendere tutti gli esseri umani sul Pianeta. L'aumento richie­sto in produzione materiale è grande. Solo per globalizzare gli standard di vita del Nord, ora la produzione mondiale dovrebbe aumentare 130 volte". E' inoltre da sottolineare che anche questo traguardo già insostenibile minimizza il problema, poiché non include la crescita attuale e le proiezioni di crescita della popolazione a breve termine. In tal senso, si potrebbe obiettare che il rapido ritmo di crescita attuale in paesi come la Cina, il cui PIL è aumentato ad un tasso medio dell' 11% ne periodo 1980-95, è fisicamente sostenibile solo se continua il consistente aumento parallelo della disuguaglianza;

  • secondo, allo stato attuale delle conoscenze tecnologiche e al costo odierno delle tecnologie "amiche dell'ambiente", un'economia di crescita universalizzata non è sostenibile dal punto di vista ambientale. In altre parole, l'universalizzazione di queste ultime è da considerarsi impossibile, dato il loro costo e la concentrazione del reddito mondiale. Per di più, è quantomeno dubbio se dopo l'universalizzazione di tali tecnologie il loro benefico impatto sull'ambiente rimarrà 1 stesso.

Quindi, la concentrazione e la disintegrazione ecologica non rappresentano semplicemente le conseguenze della costituzione dell'economia di crescita, ma anche i requisiti indispensabili fondamentali per la sua riproduzione, contrari ai "paladini della società civile" sottoconsumistica, che sperano che le élite del Triad, affrontando la minaccia di una domanda inadeguata con conseguente aumento della disuguaglianza, siano indotte a introdurre un'economia mondiale mista, quando invece è esattamente il contrario. L'economia di crescita del Nord non solo non è minacciata dalla crescente disuguaglianza dell'attuale economia intemazionalizzata di mercato, ma dipende invece da essa. Così, proprio come la produzione dell'economia di crescita non è possibile senza depauperare la natura, la sua riproduzione fisica è ugual­mente impossibile senza un'ulteriore concentrazione di pote­re economico.

In conclusione, è ovvio che l'attuale concentrazione del potere economico, politico e sociale nelle mani delle élite che controllano l'economia di crescita non è semplicemente un fenomeno culturale legato al valori stabiliti dalla rivoluzione industriale, come ingenuamente credono alcune correnti si­gnificative del movimento ecologico. La realizzazione dell'equi­librio ecologico non è solo una questione di cambiamenti nei sistemi di valori (abbandono della logica di crescita, del con­sumismo) che porterebbero ad uno stile di vita rispettoso del­l'ambiente. La concentrazione del potere rappresenta l'inevi­tabile effetto di un processo storico cominciato con la costitu­zione delle strutture gerarchiche sociali e con l'annessa ideo­logia di dominazione dell'uomo sull'uomo e sulla natura, ed è culminato negli ultimi due secoli con lo sviluppo dell'econo­mia di mercato e del suo effetto secondario, l'economia di cre­scita. 

In altre parole, l'economia di mercato/crescita e la con­centrazione di potere economico sono facce opposte della stes­sa medaglia. Questo significa che all'interno dell'attuale con­testo istituzionale dell'economia internazionalizzata di mer­cato/crescita, non si possono evitare né la concentrazione del potere economico né le implicazioni ecologiche dell'econo­mia di crescita. Ma, e qui sta la contraddizione, l'aumento della concentrazione del potere economico porta inevitabil­mente a rendersi conto che il progresso, nel senso del miglio­ramento del benessere attraverso la crescita, ha un carattere necessariamente non-universale. Quindi, il momento della verità per l'attuale sistema sociale giungerà quando verrà universalmente riconosciuto che l'esistenza reale degli attua­li standard di consumo sconsiderato dipende dal fatto che solo una piccola porzione della popolazione mondiale, ora o in futuro, può usufruirne. 

Ma consideriamo più in dettaglio le implicazioni dell'internazionalizzazione odierna dell'economia di mercato sulla concentrazione del potere. Non sto parlando della globalizzazione dell'economia, dal momento che c'è una diffe­renza significativa fra globalizzazione e internazionalizzazione. Tale differenza non è solo semantica. L'internazionalizzazione si riferisce al caso in cui i mercati diventano intemazionalizzati e, di conseguenza, le politiche economiche dei governi nazio­nali e la riproduzione dell'economia di crescita sono condizio­nate dal movimento di beni e capitali attraverso le frontiere. La globalizzazione, invece, si riferisce al caso in cui la produ­zione stessa diviene intemazionalizzata, nel senso che le uni­tà di produzione diventano enti senza stato, operanti in un mondo senza confini, con attività che soprattutto al paese che è la loro base nazionale e non implicano una divisione interna integrata del lavoro comprendente più nazioni. La prova di ciò sta nel fatto che l'internazionalizzazione avviene proprio su scala massiccia, mentre la globalizzazione è anco­ra molto limitata. 

Per quanto riguarda il ruolo odierno dello stato, come ho detto prima, lo stato nazione, contrario alle proteste dei "globalizzatori", ha ancora un ruolo significativo da giocare nell'economia intenazionalizzata neoliberista. Questo ruolo, comunque, non coinvolge più il rafforzamento dei controlli sociali per proteggere la società dal mercato. Il ruolo dello stato oggi ha esclusivamente lo scopo di assicurare la ripro­duzione dell'economia di mercato tramite il suo monopolio di violenza e creare il contesto stabile per l'efficiente funziona­mento dei mercati. Quindi, nello stesso modo in cui nella pri­ma fase della "marketizzazione", quando l'economia di mer­cato era soprattutto nazionale, allo stato-nazione venne asse­gnato il compito di rafforzare, tramite il suo monopolio della violenza, le regole del mercato; nell'economia internazionaliz­zata di mercato di oggi lo stesso ruolo è affidato allo stato, ma anche alle organizzazioni internazionali come la NATO e un'ONU controllata da capitalisti (l'ultimo esempio è stato la guerra del Golfo). Certo, questo non nega il fatto da me già citato che riguarda la perdita della sovranità economica da parte dello stato e la sua sostituzione con un sistema orga­nizzato a più livelli di entità politico-economiche, che consi­stono di micro-regioni, stati tradizionali, macro-regioni e cit­tà mondiali che stanno diventando gli strumenti dell'econo­mia globale. 

Un effetto importante dell'internazionalizzazione dell'eco­nomia di mercato è stato, quindi, di rafforzare ulteriormente la concentrazione del potere economico, nonostante qualche decentralizzazione fisica della produzione industriale. Comun­que, la tendenza in accelerazione verso l'internazionalizzazione dell'economia di mercato e la crescente concentrazione di po­tere economico che ne risulta hanno serie implicazioni anche per quanto riguarda la concentrazione di potere politico. Per esempio, come sottolinea un recente rapporto che si riferisce in particolare all'Unione Europea, oggi il 50% della legislazio­ne viene deciso a Bruxelles. 

Tutto ciò ha già portato ad un dibattito sul futuro della politica e della democrazia. Coloro che danno per scontato il contesto istituzionale odierno dell'economia di mercato e del­la "democrazia" liberale sono divisi riguardo alla loro lettura delle tendenze future. Da un lato ci sono coloro che sostengo­no la visione secondo cui le tendenze attuali, a lungo andare, porteranno alla fine non solo dello stato-nazione, ma anche della "politica" e della "democrazia" come noi le conosciamo. In questo modo, i fautori della tesi sulla "fine della politica" asseriscono che la collocazione naturale del bene generale, la sfera politica sulla quale riposava la democrazia liberale, è destinata a sparire nell'era dei network. Dall'altro lato, ci sono quelli della "sinistra" civile e societaria che cercano di evidenziare come lo stato-nazione sia ancora il motore più appropriato per la riproduzione dell'economia di crescita e come la questione sulla globalizzazione sia ampiamente esa­gerata. 

Non avrei difficoltà ad essere d'accordo con la tesi sul­l'impellente fine della "politica" e della "democrazia", premes­so che, comunque, tali termini intendono rappresentare l'ar­te di governo e l'oligarchia liberale attuali che oggi passano rispettivamente per politica e democrazia. E' così perché que­ste ultime, in effetti, rappresentano ai nostri giorni una fla­grante distorsione del vero significato di tali termini e stanno per essere eliminate davvero, se non nella forma, almeno nel contenuto. Proprio come in passato la "nazionalizzazione" del mercato ha portato alla morte delle comunità, delle città libe­re e delle loro federazioni, ci si può ragionevolmente aspettare che l'internazionalizzazione del mercato attuale porterà alla morte degli stati e delle politiche nazionali. Anche se le istitu­zioni politiche odierne in futuro sopravviver anno, esse ver­ranno svuotate di ogni contenuto reale e saranno solo resti del passato che costituiscono una formalità simbolica, simile alle monarchie ancora esistenti in alcuni paesi europei. 

Eppure, il fatto che si possa essere d'accordo con l'ipotesi sulla fine dello stato-nazione e, conseguentemente, della po­litica e della democrazia nel loro significato attuale, non im­plica che si debba anche esserlo per quanto riguarda le con­clusioni dei sostenitori di questa ipotesi. In altre parole, seb­bene sia ovvio che all'interno del nuovo contesto istituzionale non può sussistere nessuna politica o democrazia significati­va, ciò non significa che queste ultime siano superflue. Ciò che è ovviamente superfluo è l'attuale contesto istituzionale dell'economia di mercato e della democrazia liberale, che co­munque sia i fautori dello stato-nazione che quelli che pro­spettano la sua fine danno per scontato! 

La domanda cruciale che sorge qui, pertanto, è se sia possibile, all'interno del contesto istituzionale esistente, ri­durre radicalmente l'attuale grande concentrazione di potere, che, secondo la nostra analisi, è la causa prima della crisi odierna. Per i fautori di quello che potremmo chiamare l'ap­proccio dello sviluppo sostenibile, promosso dal rapporto Brundtland e abbracciato dai realos verdi di tutto il mondo, è possibile giungere a uno sviluppo sostenibile, definito come "lo sviluppo che incontra i bisogni del presente senza com­promettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri". Secondo questo approccio, la continuazione della cre­scita è la chiave della giustizia sociale, dal momento che può eliminare la povertà, e anche quella della protezione ambien­tale, soprattutto perché l'eliminazione della povertà costitui­rebbe anche quella di un fattore eco-distruttore cruciale. Inol­tre, tale crescita potrebbe essere sostenibile dal punto di vi­sta dell'ambiente, "se le nazioni riescono a continuare i re­centi spostamenti di contenuto della loro crescita verso atti­vità che sfruttano meno intensamente materia e energia e verso un miglioramento della loro efficienza nell'usarli". 

Si potrebbe sostenere allora che qui ci sono due modi principali in cui la crescita economica riduce la povertà: o attraverso l'effetto "a stillicidio" (come affermano i neoliberisti) e/o attraverso qualche tipo di azione governativa di ridistribuzione (come affermano i socialdemocratici di vario tipo). Eppure, per quanto riguarda il primo, l'inefficacia del­l'effetto "a stillicidio" può facilmente essere dimostrata, e per­fino un rapporto molto recente della Banca mondiale fu costretto ad ammettere che il ritmo miracoloso di crescita del­l'Asia orientale aveva ampliato il divario fra povertà e ricchezza. Così, per ciò che concerne il secondo, è ovvio che un'effi­cace azione ridistributiva del governo a vantaggio delle classi inferiori sia per definizione esclusa dal contesto dei mercati a capitali liberi impliciti nell'economia internazionalizzata di mercato, data per scontata da questo approccio. Infatti, come ho già detto, se in questa cornice ha luogo una qualunque ridistribuzione del reddito, essa va contro le classi inferiori, non a loro favore! 

Quindi, ciò per cui in effetti discutono i sostenitori di questo approccio è la possibilità di un "capitalismo verde", anche se essa ignora la contraddizione fondamentale che esi­ste fra la logica e la dinamica dell'economia di crescita da un lato, e dall'altro il tentativo di condizionare tale dinamica con criteri qualitativi. E' sicuro, pertanto, che la contraddizione emersa in passato, quando lo statalismo socialista tentò di introdurre nel processo di crescita criteri a lui propri come equità e giustizia sociale, emergerà anche adesso, se nello stesso processo si cercherà in modo simile di introdurre cri­teri ecologici come sostenibilità e rafforzamento delle basi delle risorse. 

Infine, sebbene si possa essere d'accordo che si sono fatti passi avanti nel controllo dell'inquinamento e nell'uso effica­ce di energia e risorse, non c'è ancora segno che i maggiori problemi ecologici siano diventati, di conseguenza, meno seri o minacciosi. Sembra invece essere il contrario per quanto riguarda tutti i problemi ecologici capitali, cioè l'effetto serra, la pioggia acida, la salinità, il depauperamento dell'ozono, la distruzione delle foreste, la desertificazione, lo sfruttamento sconsiderato del territorio e così via. Perfino nell'ultima Con­ferenza mondiale di New York di alcuni mesi fa, infatti, si fu costretti ad ammettere che dalla prima Conferenza mondiale a Rio la situazione è peggiorata su tutti i fronti. 

Si può quindi concludere che il fatto che questo approc­cio ignori il fenomeno della concentrazione di potere come conseguenza fondamentale e condizione preliminare della cre­scita non è irrilevante per le soluzioni essenziali da esso pro­poste, cioè più crescita e politiche, leggi ed istituzioni miglio­ri, come pure una crescente inefficacia dell'uso dell'energia e delle risorse. E' quindi ovvio che lo scopo reale di questo approccio non è di proporre modi per realizzare uno sviluppo sostenibile ma, al contrario, modi di creare un'economia di mercato/crescita "eco-competibile", il che è una contraddi­zione di termini. 

I sostenitori dell'approccio sullo sviluppo sostenibile non sono i soli a vedere la via d'uscita dalla crisi ecologica in ter­mini contraddittori, cioè di un'economia di crescita soggetta alle prescrizioni qualitative della sostenibilità. I deep ecologist cadono in una trappola simile. La loro ideologia attribuisce equità a tutte le forme di vita ("uguaglianza biocentrica") e suggerisce che le relazioni con il mondo naturale dovranno cambiare per prime, al fine di trasformare le relazioni sociali, e non viceversa. Quindi, i fautori di questo approccio affer­mano che la causa ultima della crisi ecologica risiede nel­l'identificazione storica del progresso con la crescita econo­mica sin dai tempi dell'Illuminismo. Di conseguenza, la via d'uscita dalla crisi è l'abbandono delle nozioni di progresso in modo tale da sostituire l'attuale economia di crescita con un"'economia stazionaria" o perfino con un"'economia decli­nante". In modo simile, altri vedono lo sviluppo sostenibile come "un consumo di sviluppo verso uno stato stabile", che necessita di una "popolazione stabile", una chiara indicazio­ne che l'approccio della deep ecology adotta appieno il mito della sovrappopolazione. 

Pertanto la deep ecology vede le cause della crisi ecologi­ca come la diretta conseguenza di un approccio antropocentrico al mondo naturale, un approccio che vede i valori umani come fonte di tutti i valori e aspira all'uso della natura come stru­mento di soddisfazione dei bisogni dell'uomo. E' altresì chia­ro che esso considera l'attuale sviluppo non sostenibile come argomento culturale piuttosto che istituzionale, come que­stione di valori piuttosto che come inevitabile conseguenza della nascita dell'economia di mercato e della sua dinamica cresci-o-muori che ha portato all'attuale economia di crescita. 

Comunque, accusare l'antropocentrismo del danno eco­logico mondiale attuale è difficilmente giustificabile. Dopo tutto, esso era già presente specialmente nell'Ovest, molto prima che cominciasse il processo di massiccia distruzione ecologica, circa due secoli fa. Si può quindi affermare che non è l'antropocentrismo in quanto tale ad aver portato alla crisi attuale, ma il fatto che l'economia di mercato e la conseguente economia di crescita si dovevano fondare su un'ideo­logia che giustificasse la dominazione umana della natura en masse. Se è così, allora, la via d'uscita dalla crisi ecologica non è solo questione di cambiare i nostri ideali per mettere la natura in una posizione uguale a quella dei valori umani di cui abbiamo fatto tesoro. Nessuno può veramente pensare che una nuova cultura che coinvolga un approccio non tiran­nico nei confronti della natura abbia la possibilità di appel­larsi alla grande maggioranza della popolazione terrestre che affronta quotidianamente la scelta fra lavoro e ambiente. Di conseguenza, il dilemma "economia di crescita"/"economia di stato stabile" è falso e posto di norma da persone che non lo vivono, soprattutto in virtù della loro posizione sociale. 

Inoltre, la trasformazione dei nostri valori rispetto alla relazione che abbiamo nei confronti della natura non forzerà da sola l'economia di mercato o lo stato a piegarsi ad essi. E' quindi ingenuo affermare, come fanno i deep ecologist, che "se ciascuno consumasse molto meno, l'economia di mercato probabilmente collasserebbe". Non ci vuole una profonda co­noscenza della storia o dell'economia per rendersi conto che un calo delle vendite, lungi dal portare ad un collasso del­l'economia di mercato, potrebbe semplicemente indurre ad un calo dei prezzi foriero di una disoccupazione persine mag­giore a livello economico, con la conseguente nascita di regi­mi politici totali tari (forse stavolta di tipo eco-fascista). 

Pertanto, la chiusura del territorio nel Sud, come pure il tipo di tecnologie sviluppatesi nell'economia di mercato non sono solo questioni di politica, ma parte integrante del siste­ma stesso dell'economia di mercato. In modo simile, la com­petizione e l'integrazione dell'economia mondiale non sono elementi puramente culturali, ma conseguenze inevitabili del contesto istituzionale definito dall'economia di mercato. Quin­di, la radice del problema non è, come la mettono i deep ecologist, il fatto che "l'intera cultura capitalista...sia ecologi­camente illetterata, e quindi pericolosa e insostenibile". La cultura capitalista è una cultura sviluppatasi in accordo con i fondamentali principi organizzativi dell'economia di merca­to e dell'economia di crescita, cioè l'efficienza e la competizio­ne. E' stata la costituzione dell'economia di mercato ad aver richiesto una sua propria cultura, e non viceversa. La gente (non intendo quelli che controllano i mezzi di produzione) non si è svegliata un bel giorno decidendo di essere efficiente e competitiva. E' stata la distruzione dei loro mezzi di sussi­stenza da parte del movimento delle "enclosures" (recinzioni) in Gran Bretagna, o dal colonialismo nelle colonie, ad averli forzati ad unirsi al sistema dell'economia di mercato e ad adot­tare i principi della competitività e dell'efficienza nella loro lotta per la sopravvivenza. 

Questa è la ragione principale per cui lo sviluppo sosteni-bile non è solo un problema culturale, o una questione di cambiamento di politiche, ma di rivoluzione dell'intero conte­sto istituzionale e di una sua sostituzione con istituzioni che neghino la concentrazione di potere, con un'economia senza denaro e senza mercato basata su una democrazia inclusiva. Allora, e solo allora, si può seriamente sperare che la cultura basata sull'economia di crescita e la conseguente idea di do­minare la natura verrà a estinguersi. In altre parole, la con­centrazione di potere all'interno del contesto dell'economia di crescita è la condizione necessaria per l'attuale insieme di valori culturali che implicano l'ideologia di dominare la natu­ra. Sebbene il semplice negare la concentrazione di potere non sia una condizione sufficiente per lo sviluppo di un nuovo insieme di valori rispetto alla nostra relazione con la natura, essa è assolutamente la condizione necessaria per un radica­le cambiamento dei valori culturali. 

Infine, non si deve accusare la stessa società industriale o la tecnologia in quanto tale dell'odierna crisi ecologica, come affermano generalmente i deep ecologist. La tecnologia non è mai stata "neutrale" rispetto alla logica e alla dinamica del­l'economia di mercato. Ancora,gli ambientalisti, come pure gli statalisti socialisti sostengono in modo esplicito, o più spes­so implicito, che la tecnologia è socialmente neutrale e che noi dobbiamo usarla solo per i giusti scopi, al fine di risolvere non solo il problema ecologico, ma quello sociale in generale. E' ovvio che questo approccio ignora la costituzione sociale della scienza e della tecnologia e il fatto che il design e in modo particolare l'implementazione di nuove tecniche sono direttamente correlati all'organizzazione sociale in generale e all'organizzazione della produzione in particolare. In un'eco­nomia di mercato, come in ogni società, la tecnologia incarna rapporti concreti di produzione, la sua organizzazione gerar­chica e, di sicuro, il suo scopo fondamentale che, nel caso dell'economia di mercato, fa riferimento alla massimizzazione della crescita e dell'efficienza economica (definita sulla base di criteri tecno-economici ristretti) a scopo di profitto. Quin­di, la tecnologia viene sempre progettata, o almeno quei pro­getti vengono adottati, perché possa servire meglio gli obietti­vi dell'economia di mercato/crescita. 

In modo simile, a creare l'attuale forma eco-dannosa di organizzazione economica non è stato l'industrialismo in ge­nerale, ma il tipo specifico di società industriale che negli ul­timi due secoli si è sviluppata nel contesto dell'economia di mercato/crescita. Pertanto, le cause ultime della crisi ecolo­gica sono l'economia di mercato e i suoi derivati (l'economia di crescita), e non i suoi sintomi, cioè il tipo attuale di tecno­logia e di società industriale. 

Se quindi accettiamo la tesi che ho provato ad avanzare, e cioè che la causa della crisi ecologica, in quanto parte dell’odierna crisi multi-dimensionale, è in definitiva la concen-trazione di potere a tutti i livelli implicata dall'attuale conte­sto socio-economico, l'ovvia conclusione è che la sola via d'usci­ta dalla crisi è la creazione delle condizioni soggettive e ogget-tive che porteranno a una nuova società. Una società che,a livello istituzionale, creerà le condizioni necessarie per l'abo­lizione della concentrazione di potere e, di conseguenza, per la reintegrazione di natura e società. Tale società è quella che io chiamo democrazia inclusiva, e che cercherò qui di riassu­mere brevemente. Gli interessati ad un'ulteriore analisi dell’argomento e della crisi della crescita economica possono fare riferimento al mio ultimo libro Towards An Inclusive Democracy [Verso una democrazia inclusiva]. 

Prima, però, devo sottolineare che il progetto di una so­cietà di questo tipo non è solo un'utopia (o, nella sua versione ecologica, un'eco-topia) nel senso negativo della parola. Un progetto sociale non è un'utopia se si basa sulla realtà odier­na, ed essa è riassunta da una crisi dell' "economia di cresci­ta" senza precedenti, che inghiotte tutti i regni della società (politico, economico, sociale e culturale), come pure la rela­zione società-natura. Inoltre, un progetto sociale non è un'uto­pia, se esprime il malcontento di settori sociali importanti e la loro contestazione implicita o esplicita della società esistente. Oggi, le principali istituzioni politiche, economiche e sociali sulle quali si fonda l'attuale concentrazione del potere sono sempre più criticate. Quindi, non solo ci si disputa in vari modi le istituzioni politiche di base, ma si sfidano anche in modo massiccio le istituzioni economiche fondamentali, come la proprietà privata. Nell'ultimo quarto di secolo, l'esplosione del crimine contro la proprietà (in Gran Bretagna, ad esem­pio, dal 1979 il furto con scasso è aumentato del 160% e quello di automobili di quasi il 200%) non è solo un fenomeno culturale o temporaneo, nonostante il drastico rafforzamento della sicurezza pubblica e privata. Dovrebbe essere visto, in­vece, come una tendenza a lungo termine che riflette l'esplo­sione della disoccupazione e l'abuso massiccio di droghe (che sono anche un fenomeno strutturale) come pure il crescente malcontento riguardo alla sempre maggiore diseguaglianza della distribuzione del reddito e del benessere, una diseguaglianza che, all'interno del contesto dell'attuale socie­tà dei consumi, diventa insopportabile. 

Allora, come possiamo definire una nuova concezione di democrazia? Un punto utile di partenza per la sua discussio­ne potrebbe essere di distinguere fra i due principali contesti della società, il pubblico e il privato, ai quali potremmo ag­giungere un "contesto ecologico", definito come la sfera delle relazioni fra i mondi sociale e naturale. In contrasto con la pratica di molti sostenitori del progetto repubblicano o demo­cratico, includerò nel regno pubblico non solo il regno politi­co, ma anche quello economico, come pure quello che chia­merò "il regno sociale in senso lato", in altre parole ogni area dell'attività umana in cui le decisioni si possono prendere col­lettivamente e democraticamente. Secondo me, l'estensione del regno pubblico tradizionale che includa i regni economi­co, ecologico e "sociale" è un elemento indispensabile per una democrazia inclusiva. Potremmo definire quindi il regno poli­tico come la sfera del decisionismo politico, l'area in cui viene esercitato il potere politico. In modo corrispondente, il regno economico è definito come la sfera del decisionismo economi­co, l'area in cui si esercita il potere economico riguardo alle grandi scelte economiche che ogni società della scarsezza deve fare. Infine, si definisce il regno sociale come la sfera del decisionismo nel lavoro, nell'educazione e in qualunque altra istituzione economica e culturale che sia un elemento costitutivo della società democratica. 

In modo corrispondente, si possono distinguere quattro tipi principali di democrazia che costituiscono gli elementi fondamentali di una democrazia inclusiva: quella politica, quella economica, quella ecologica e la democrazia "del regno della società". Definiremo poi rapidamente l'aspetto politico, quello economico e la democrazia del regno sociale come la cornice istituzionale che aspira ad un'equa distribuzione ri­spettivamente del potere politico, economico e sociale, in al­tre parole come il sistema che aspira all'efficace eliminazione del predominio dell'uomo sull'uomo. In modo simile, possia­mo definire la democrazia ecologica come il contesto istituzio­nale che aspira all'eliminazione di ogni tentativo umano di dominare il mondo naturale, in altre parole, come il sistema avente lo scopo di reintegrare uomini e natura. 

Pertanto, in questa concezione di democrazia inclusiva si riconosce anzitutto che la democrazia politica o diretta, in cui il potere politico viene equamente suddiviso fra tutti i cittadi­ni, non è né attuabile né desiderabile, se non si accompagna alla democrazia economica intesa come equa distribuzione del potere economico. La democrazia politica ed economica in questo senso rappresenterebbe la riconquista del regno poli­tico ed economico da parte del regno pubblico, cioè la riconquista di una vera individualità sociale, la creazione del­le condizioni di libertà e di autodeterminazione, sia a livello politico che economico. 

Ad ogni modo, i poteri politico ed economico non sono le sole forme di potere, e quindi le democrazie politica ed econo­mica non assicurano da sole una democrazia inclusiva. In altre parole, essa è inconcepibile se non si estende al più ampio regno sociale per abbracciare il lavoro, la famiglia, l'educazio­ne e di conseguenza ogni istituzione economica o culturale facente parte di questo regno. Un argomento cruciale che ri­guarda la democrazia nel regno sociale è rappresentato dalle relazioni nella famiglia. In questo secolo, lo status sociale ed economico delle donne si è rafforzato, come risultato delle crescenti esigenze di lavoro dell'economia di crescita da un lato e dell'attività dei movimenti delle donne dall'altro. Anco­ra, relazioni di genere a livèllo familiare sono perlopiù gerar-chiche, specialmente nel Sud, dove vive la maggioranza della popolazione mondiale. Comunque, sebbene la famiglia condi­vida con il regno pubblico una caratteristica fondamentale, la disuguaglianza e le relazioni di potere, essa viene sempre classificata nel regno privato. Quindi, il problema che si presenta qui è come si possa raggiungere la "democratizzazione" della famiglia. 

La domanda finale che si pone per quanto riguarda la concezione di una democrazia inclusiva si riferisce al modo in cui si può immaginare un contesto istituzionale che rispetti l'ambiente e non serva da base ad un'ideologia di dominio della natura. Alcuni critici della democrazia inclusiva frain­tendono questo soggetto come se si trattasse delle garanzie che essa può offrire nell'assicurare una relazione società/ natura migliore dei sistemi alternativi dell'economia di mer­cato, o dello statalismo socialista. Questo è un chiaro frain­tendimento di ciò che è la democrazia perché, se la vediamo come un processo di auto-istituzione sociale dove non c'è al­cun codice divinamente o "obiettivamente" definito di condot­ta umana, tali garanzie vengono per definizione dichiarate unanimamente inammissibili. Pertanto, la sostituzione dell’economia di mercato con il nuovo contesto istituzionale del­la democrazia inclusiva costituisce solo la condizione neces­saria   per una relazione armoniosa fra i mondi naturale e sociale. La condizione sufficiente riguarda il livello di coscien­za ecologica dei cittadini. Ancora, si può ragionevolmente sup­porre che il cambiamento radicale del paradigma sociale do­minante, conseguenza dell'istituzione di una democrazia in­clusiva combinata con il ruolo decisivo che una educazione completa della conoscenza e delle abilità (cioè l'educazione dell'individuo come cittadino) può fornire in un contesto isti­tuzionale rispettoso dell'ambiente, porterà ad un cambiamento radicale del comportamento umano verso la natura. 

Una problematica ecologica democratica non può allora andare oltre e definire le condizioni istituzionali fondamentali che offrano la migliore speranza per una migliore relazione umana con la natura. Comunque, ci sono prove consistenti per credere che il rapporto fra democrazia inclusiva e natura sia molto più armonioso di quanto potrebbe esserlo in un'eco­nomia di mercato, o in una basata sullo statalismo socialista. I fattori che supportano questa visione riguardano tutti e tre gli elementi di una democrazia inclusiva: quello politico, quello economico e quello sociale.

 A livello politico, ci sono le basi per ritenere che la crea­zione di uno spazio pubblico avrà da sola un effetto molto importante nel ridurre l'attrattiva del materialismo. Questo perché lo spazio pubblico fornirà un nuovo significato di vita per riempire il vuoto esistenziale creato dall'attuale società dei consumatori. Si può quindi giustamente supporre che la realizzazione di ciò che significa essere umani ci riporterà in­dietro verso la natura. Come è stato sottolineato di recente in riferimento al lavoro di Hannah Arendt "un mondo in cui il lavoro viene visto solo come una parte di una vita piena di significato troverà il consumo meno attraente". 

A livello economico, allora, non è caso che, storicamente, il processo di distruzione massiccia dell'ambiente sia coinci­so con il processo di "marketizzazione" dell'economia. In altre parole, l'ascesa dell'economia di mercato e della conseguente economia di crescita ha avuto delle ripercussioni cruciali sul­la relazione società/natura e ha portato alla nascita dell'ideo­logia di crescita come il paradigma sociale dominante. Ciò che divenne dominante fu, però, una visione "strumentaliz­zata" della Natura, in cui essa era vista come uno strumento di crescita all'interno di un processo di concentrazione di po­tere senza fine. Se consideriamo che allo stato attuale solo una società basata su una comunità confederale potrebbe assicurare una democrazia inclusiva, sarebbe ragionevole pensare anche che, una volta rimpiazzata l'economia di mer­cato con un'economia confederale condotta democraticamen­te, la dinamica cresci-o-muori dell'economia di mercato sarà sostituita dalla nuova dinamica sociale di una nuova società: una dinamica il cui scopo è la soddisfazione dei bisogni della comunità e non la crescita di per sé. Se tale soddisfazione non dipende, come adesso, dalla continua espansione della produzione che copre le esigenze create dal mercato, e se si restaura il legame fra società ed economia, allora non c'è ra­gione per cui la visione strumentalistica odierna della natura continuerà a condizionare il comportamento umano. 

Infine, si può ragionevolmente pensare che la democrazia nel regno sociale abbia più rispetto dell'ambiente. Lo spegnersi delle relazioni patriarcali nella famiglia e nelle relazioni ge-rarchiche in generale dovrebbe creare una nuova etica di non­dominio che sommergerebbe non solo la prima natura ma anche la seconda. In altre parole, la creazione di condizioni democratiche nel regno sociale deve essere un passo decisivo nella creazione delle condizioni sufficienti per un'armoniosa relazione natura-società. 

Ma, a parte i suddetti fattori politici ed economici, qui è implicato un fattore ecologico che sostiene fortemente la fidu­cia nella relazione armoniosa democrazia-natura cioè che ci si potrebbe aspettare che il carattere "localistico" di una so­cietà basata su una comunità confederale rafforza la sua tendenza alla tutela dell'ambiente. Le comunità su piccola scala hanno più possibilità di raggiungere le condizioni for­mali richieste per una gestione collettiva dei comuni durevole e di successo. Inoltre, è giusto pensare, e la prova riguardo al rimarchevole successo delle comunità locali nel salvaguarda­re il loro ambiente è schiacciante, che quando il popolo si affida direttamente al suo ambiente per la propria sussisten­za, esso svilupperà un'intima conoscenza di quest'ultimo, che influenzerà necessariamente in modo positivo il suo compor­tamento verso di esso. Comunque, la condizione fondamen­tale perché un controllo locale dell'ambiente abbia successo è che la comunità dipenda dai suoi dintorni naturali per la sua sopravvivenza a lungo termine, e che quindi abbia interesse nel proteggerla, un'altra ragione per cui una società ecologica è impossibile senza una democrazia economica.

In conclusione, ai giorni nostri la crisi ecologica è fonda­mentalmente suscettibile di due soluzioni: una presuppone una decentralizzazione radicale. L'efficacia economica delle forme rinnovabili di energia (solare, eolica, ecc.) dipende così in modo cruciale dall'organizzazione della vita sociale ed eco­nomica in unità più piccole. Tale soluzione, comunque, è già stata emarginata dall'economia internazionalizzata di merca­to, proprio perché non compatibile con la concentrazione odier­na di potere economico, politico e sociale. Questa è la ragione per cui le soluzioni avanzate al giorno d'oggi sembrano con­centrare molti vantaggi dell'energia rinnovabile, ma senza ren­dere necessario alcun cambiamento radicale nell'economia di mercato / crescita. 

Vorrei infine toccare la questione della cittadinanza. La nuova concezione della democrazia da me brevemente descritta implica un'idea diversa di cittadinanza, che abbraccia gli aspet­ti economico, politico sociale e culturale. La cittadinanza poli­tica comporta quindi nuove strutture politiche e un ritorno alla concezione classica della politica (democrazia diretta). La cittadinanza economica implica la creazione di altre strutture economiche di proprietà della comunità e di controllo, delle risorse economiche (democrazia economica). La cittadinanza sociale comporta strutture di autogestione sul posto di lavoro e di democrazia in famiglia, e nuove strutture per il benessere in cui tutti i bisogni primari (democraticamente determinati) siano coperti dalle risorse della comunità, siano esse soddi­sfatte nell'ambito familiare o in quello della comunità. Infine, la cittadinanza culturale coinvolge schemi rinnovati di diffu­sione e di controllo dell'informazione e della cultura (mass media, arte, ecc.), che permettono a ogni membro della co­munità di prendere parte al processo, e allo stesso tempo di sviluppare il suo potenziale intellettuale e culturale. 

Quest'idea di cittadinanza che possiamo chiamare demo­cratica presuppone una concezione "partecipatoria" della cit­tadinanza attiva, in cui l'attività politica non sia un mezzo per uno scopo, ma un fine in se stessa, e in cui, come afferma Hannah Arendt, non ci impegniamo in un'azione politica solo per favorire il nostro benessere, ma per realizzare i principi intrinseci alla vita politica, come la libertà, l'uguaglianza, la giustizia, la solidarietà, il coraggio e l'eccellenza. E' quindi ovvio che tale concezione della cittadinanza sia qualitati­vamente diversa da quella liberale e da quello social-demo­cratico, che adottano una visione "strumentalistica" del citta­dino, secondo la quale la cittadinanza deve permettere ai cit­tadini certi diritti da esercitare come mezzo al fine di un be­nessere individuale. 

Per riassumere, secondo me, dopo il collasso del progetto di stato socialista, la democrazia può rappresentare la sola via d'uscita alla crisi multidimensionale. Con questo termine, però, non si intendono i vari regimi oligarchici del Nord che oggi si definiscono democratici, per non parlare dei governi dispotici del Sud, e neppure un ritorno anacronistico alla con­cezione classica di democrazia. Essa oggi può solo intendere una sintesi delle due maggiori tradizioni storiche, cioè quella democratica e quella socialista, con le tradizioni verdi radica­li, femministe e libertarie. E' mia speranza che il progetto per una democrazia inclusiva da me descritto possa essere un tentativo plausibile di tale sintesi.